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Ricordando Don Milani, che forse boccerebbe i test Invalsi

mercoledì 26 luglio 2017

Don Lorenzo Milani con i suoi ragazzi di Barbiana (Firenze) (Newpressphoto/Ipa)
Cinquant’anni fa moriva il grande educatore, maestro e prete scomodo. Uno scrittore che lo ha studiato a lungo lo racconta. Nella sua attualità che ancora oggi divide.
Don Lorenzo Milani morì il 26 giugno 1967 a Firenze nella casa di via Masaccio 208, a soli quarantaquattro anni, stroncato dal linfoma di Hodgkin. Ad accudirlo furono gli scolari, ai quali, scrisse nel Testamento, aveva voluto più bene che a Dio, sperando nella Sua benevola comprensione. Quattro mesi dopo venne condannato, in quanto difensore degli obiettori di coscienza, accusati di viltà da un gruppo di cappellani militari toscani, ma il reato fu considerato estinto perché lui era deceduto. Il testo che aveva scritto ai suoi giudici, prima ancora di quello indirizzato alla famosa professoressa, è uno dei grandi risultati della letteratura italiana del Novecento, non solo e non tanto per ciò che dichiara sull’idea di patria, chiesa, scuola, storia, giustizia e responsabilità, ma per come lo esprime. In quale altra opera di quegli anni potremmo ritrovare un controllo stilistico così potente del sentimento partecipativo realizzato sul campo vivo delle operazioni? Il Meridiano della Mondadori, che sarà fra poco in libreria, con la direzione di Alberto Melloni, autore della splendida introduzione (Federico Ruozzi e la nipote Valeria Milani Comparetti sono gli altri curatori), in cui viene raccolta tutta la produzione milaniana, lo dimostra appieno.
Don Lorenzo (che Melloni chiama μ, il mi greco, nel tentativo di preservare il nome dalla insopportabile consunzione semantica a cui è andato incontro) ci consegna una scrittura-azione perfino più originale di quella pasoliniana: una goccia del sangue per come ha saputo legare parola e esperienza. Tutti potremmo dire ciò che vogliamo, certo, ma poi dovremmo essere pronti a pagare il prezzo del risarcimento nel caso in cui commettessimo un danno. Il corpo non può e non deve venire preservato: così diventi credibile. Ecco la prova. Un anno e mezzo prima della fine Nadia Neri, giovane professoressa napoletana, gli chiede consigli. Sta per risponderle Carla (14 anni), ma il priore, vincendo il dolore della malattia, con la lingua screpolata, le ossa rotte, la mano tremante, capisce che deve farlo di persona. Si alza dalla brandina, prende la penna in mano e ci regala un altro gioiello: «Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio… Ai partiti di sinistra dagli soltanto il voto, ai poveri scuola subito prima d’esser pronta, prima d’esser matura, prima d’essere laureata, prima d’esser fidanzata o sposata, prima d’esser credente. Ti ritroverai credente senza nemmeno accorgertene. Ora son troppo malconcio per rileggere questa lettera, chissà se ti avrò spiegato bene quello che volevo dirti».
L’ultima frase è forse ancora più importante delle precedenti (sfolgoranti, che ultimamente ho letto alle ragazze del liceo Poerio di Foggia, qualcuna di loro dopo aveva gli occhi lucidi). Don Lorenzo infatti fu uno scrittore epistolare, nel solco più puro della nostra tradizione (senza tornare alle epistole petrarchesche, basti pensare a Foscolo, alle Ultime lettere di Jacopo Ortis), con una differenza essenziale: non ricopiava in bella. 

Scriveva di getto e poi spediva, così come viveva: a fondo perduto, senza curarsi del risultato che avrebbe potuto conseguire, ma avendo fede nell’azione che stava realizzando. 

Allora noi oggi, dopo la scomparsa di quello che ho definito l’uomo del futuro (anche pensando ad una battuta da lui rivolta al cardinale Ermenegildo Florit che lo aveva sempre ostacolato: «Io sono più avanti di lei di cinquant’anni», dovremmo chiederci perché don Milani continua a dividere: c’è chi lo ama e chi lo rigetta. Tra gli attacchi più famosi ricordiamo almeno il celebre articolo di Sebastiano Vassalli (Don Milani, che mascalzone, uscito venticinque anni fa su Repubblica). Nelle settimane scorse, sulle pagine del supplemento domenicale del Sole 24 Ore, Lorenzo Tomasin (Io sto con la professoressa, 26 febbraio) e Paola Mastrocola (Uscire dal donmilanismo, 26 marzo), pur con accenti diversi, gli hanno attribuito la responsabilità del presunto sfacelo della scuola italiana, come se lui fosse davvero il padre spirituale dell’egualitarismo indifferenziato di marca sessantottina e non invece il fustigatore incompreso di ogni possibile negligenza e pressapochismo educativi, fino al punto di aver redarguito un insegnante troppo permissivo, che non aveva saputo tenere a freno i suoi studenti, scrivendogli: «La scuola deve essere monarchica assolutista e è democratica solo nel fine».
Chi pensa che la scuola italiana di oggi sia figlia sua, dovrebbe chiedersi cosa direbbe il priore di Barbiana dei Test Invalsi che vorrebbero certificare le compentenze dei nostri studenti spingendoli, dopo aver letto un brano di letteratura, a mettere la crocetta giusta fra A, B e C. Il prete del Mugello sapeva fino a che punto una risposta corretta possa non corrispondere a una preparazione adeguata. Viceversa, una risposta sbagliata non dovremmo mai gettarla nel cestino. Di fronte a tutte le incombenze burocratiche a cui sono sottoposti i docenti del nostro Paese, chiusi nell’angolo del tempo scandito dalla campanella, del giudizio siglato dal voto, rimasti peraltro gli unici a dover ricondurre gli adolescenti ai valori dell’applicazione e del rigore in un mondo che li spinge altrove, quale sarebbe la reazione del priore? Con ogni probabilità farebbe una pernacchia. Di certo non si riconoscerebbe nella riduzione di qualsiasi obiettivo didattico. Mandava gli studenti all’estero affinché imparassero le lingue (anche l’arabo in Algeria). Voleva ottenere il massimo in termini di preparazione culturale (grammatica compresa), ma soprattutto puntava a far brillare gli occhi degli scolari. Questo gli costò caro perché non tutti, anche ai suoi tempi, lo apprezzarono. Molti gli si rivoltarono contro, compresi certi ragazzi. E lui si prese le bastonate. Educare significa ferirsi. Andare là dove sai che ti fa male. Così ci possiamo spiegare anche un’altra delle sue celebri battute, forse la più amara:
 «Le maestre sono come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire. È bello vedere di là dall’uscio della propria casa. Bisogna soltanto esser sicuri di non aver cacciato nessuno con le nostre mani».

Va bene, ma oggi dove starebbe don Lorenzo Milani? Non ci ha lasciato metodi, piuttosto energia allo stato puro. Una sapienza del fare scuola. Ecco perché io, anche sulla scorta di una foto che lo ritrae a Barbiana con un bambino congolese in braccio, sono andato a cercarlo in giro per il mondo: nei villaggi africani, in certe bettole indiane, alla periferia di Pechino. Ne ho colto il riverbero negli occhi di un disertore russo. Ho rivisto in Africa i nuovi ragazzi di Barbiana. A Berlino gli adolescenti ribelli. A Città del Messico gli alunni svogliati. Nel mondo arabo i bambini perduti. Sono stato a Ellis Island a parlare coi fantasmi degli immigrati italiani. E a Hiroshima, vicino all’ipocentro dove brucia la fiamma perenne, ho ripensato al fatto che il priore leggeva ai suoi piccoli contadini le lettere che Claude Eatherly, il pilota americano pentito, spediva a Günthers Anders, filosofo tedesco. Ho avuto qualche problema a ritrovare don Milani nella chiesa di oggi, ma tutte le volte che restavo deluso dai parroci romani mi consolavo osservando la fotografia sopra di loro: quella di Papa Francesco, il primo fra gli alti prelati vaticani a indicare don Lorenzo quale punto di riferimento essenziale per credenti e non credenti, nell’ottica e nello spirito di un cristianesimo militante concepito alla Dietrich Bonhoeffer:
Non una medicina spirituale per guarire dalle nostre malattie interiori, ma un incrocio di sguardi di cui prendersi cura.
Fonte: da Eraldo Affinati
La Repubblica, maggio 2017
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